Metafore

Stamattina mi sono ritrovata ad ascoltare Leonard Cohen in cuffia, mentre andavo a Torino: fuori era autunno, nebbia sul fiume, cieli grigi sopra le strade. La sua voce nelle orecchie, calda: lontana anche, in qualche modo, nel tempo più che nello spazio. Pensavo alla Rosa, un po’ per S., perché è periodo, un po’ perché era dai tempi belli di quella storia che non mi capitava di ascoltare Cohen in viaggio e l’autunno di Torino mi fa pensare sempre ai vent’anni, l’università vissuta con la fretta di tornare a casa per rispettare un appuntamento, immergersi in una vita parallela.

It’s four in the morning, cantava lui, the end of december. Io stilavo una lista mentale delle mie canzoni preferite, e ogni volta che lui attaccava con quella successiva l’ordine cambiava. Arrivata a Porta Susa, sono scesa dall’autobus e ho continuato a gironzolare accompagnata da The Stranger Song – e Megan – finché non è stata ora di entrare dalla psicologa.

Mi chiedo se abbia senso pensare che, dopo un anno che vado, le cose stiano cominciando a smuoversi davvero solo perché sono due sedute di fila che mi ritrovo a parlare con gli occhi bagnati e il nodo alla gola – trattenendo le lacrime – mentre l’autunno scorso entravo e uscivo come per una commissione qualunque. O è solo il periodo, a influire?

A un certo punto parlavamo dei bisogni, o dei desideri, neanche so più se c’era differenza nel discorso, e lei mi ha fatto notare che i miei bisogni – i miei desideri – non sono praticamente mai contemplati nelle cose che faccio. Io ho detto che mi sembrava meglio non contemplarli, in fondo, dato che se dovessi dare retta ai miei bisogni&desideri passerei letteralmente il giorno a leggere rannicchiata in un angolo. Questa faticosa ricerca di uno spiraglio in cui rientrare nel mondo è una violenza che mi faccio di proposito, per sentirmi un po’ meno in colpa verso tutto. E lei ha osservato che il bisogno di scomparire che mi porto dietro di continuo probabilmente non è un bisogno vero, o il senso di colpa non avrebbe ragione di esistere. Lo uso per coprire il resto. Qualunque cosa sia che non voglio affrontare.

Immagino abbia ragione. L’ho detto anche a lei, seduta su quella poltrona rivestita di scottex, attraverso la mascherina che oggi per la prima volta mi ha chiesto di tenere anche in studio. E anche mentre lo dicevo mi sentivo scivolare, in quelle cose che sai da sempre e non hai mai pensato chiaramente: come l’assenza di desiderio caratterizzi l’intera mia vita. Come sia così radicata che al momento di guardare sotto, di capire cosa nasconda, mi sento del tutto spersa, una zattera in mezzo al mare. Sono andata alla deriva per anni, a un certo punto ho alzato la testa e la terra non si vedeva da nessuna parte. Non la vedo ancora. Non so da che parte sia, quale sia, dove vorrei andare. Cos’altro fare a parte stare qui, a galleggiare.

Non so neanche perché mi abbia stupito tanto. Erano conclusioni a cui ero arrivata da tempo, per conto mio, prima ancora di cominciare questo percorso guidato. Sapevo che era un problema, l’avevo già ammesso.

Eppure. Mi ha smarrito lo stesso. Per qualche motivo.

Avrei voluto chiederle cosa si fa, in questi casi. Come ricostruisci una mappa per una strada che hai cancellato più o meno scientemente. Mi sono messa a parlare, invece, non di altro, non proprio: solo a riempire il silenzio con la voce.

Con qualcosa di vero, anche. In quel momento, persino l’imbarazzo, il terrore di essermi scoperta troppo e di aver ammesso qualcosa che non avrei potuto ritrattare era meno forte di quello smarrimento assoluto.

(Mesi fa, nella coda lunga del lockdown, quando ancora facevamo le sedute solo su Skype – come torneremo a fare da mercoledì prossimo – ha detto che le sembravo spersa. Priva di direzione. Io non mi ero mai pensata in quei termini precisi, non razionalmente, almeno, o forse l’avevo fatto per poi cancellare il pensiero subito dopo, ma la mente era andata alla Rosa dei venti, in quel momento, a tutte le bussole che ho cercato e inseguito negli anni, al tatuaggio che Sabry avrebbe voluto farsi e che forse sarebbe stato bene anche a me, al tatuaggio che probabilmente porto addosso lo stesso, invisibile. A quel mare, all’oceano di Theo e Mark del romanzo che stavo scrivendo, che ho da poco finito di scrivere. Metafore e sintomi, la loro confusione.)

Uscita da lì, cielo era ancora grigio. Io ho preso il cellulare dalla tasca – cercato la notifica di un messaggio che aspetto da settimane e che ovviamente non c’era – e ho aperto google maps per trovare un tabaccaio dove comprare francobolli e marche da bollo. Mi sono quasi persa lo stesso, perché ho attaccato a camminare nella direzione opposta a quella in cui avrei dovuto.

Non ci avevo fatto caso fino a questo momento. È buffo. Anche vero, però, e forse buffo proprio per questo.

E non so perché sono finita a scrivere di queste cose. Non era previsto, sono anche un po’ tentata di cancellare tutto. Ma Ste mi dice sempre che dovrei provare a scrivere cose più vere, e probabilmente non è questo che ha in mente – non solo, non proprio, forse – ma insomma. Meglio che niente.

4 thoughts on “Metafore

  1. Niente di strano che la terapia inizi a smuovere qualcosa dopo tempo. Potresti essere più pronta tu, più incline ad aprirti; o forse, certo, un misto di fattori. La terapia è un processo molto complesso, in cui già è difficile trovare il terapeuta e la tecnica adatti (se si sbaglia questo, si rischia di perdere anni e soldi inutilmente. E, ahimé, accade la maggior parte delle volte, complici gli psicologi che, pur accorgendosene, non mandano il paziente a colleghi magari più adatti per non perdere una fonte di profitto. Triste, ma è la verità). Lo stato della persona e gli eventi esterni, che spesso fanno da innesco, di certo contribuiscono. Sono felice, comunque, che tu pianga. Vuol dire che sta toccando qualcosa. DEVE toccare qualcosa. Chi pensa che la terapia ti faccia “star bene” è un ingenuo e ha un’idea, appunto, ingenua del processo. La vera terapia ti devasta, ti mette faccia a faccia con gli aspetti scomodi e lo sporco sotto il tappeto di cui hai voluto o hai finto di dimenticarti.

    Mi verrebbe invece da chiederti: è così brutto perdersi? Rispetto a cosa sei “persa”? Qual è il punto che funge da parametro per definirti tale? E cosa succede, se ti perdi?
    Bisognerebbe partire da quello, per me. Il sentirti persa, il non avere una mappa è qualcosa di brutto, da correggere a tutti i costi? Credi che tutti abbiano una mappa, siano collocati e consapevoli? E questo li rende più sicuri o realizzati?
    Se ne potrebbe discutere ore, ma non sono il terapeuta. E, probabilmente, io e la collega che ti segue apparteniamo a scuole differenti, per cui dubito batterà mai questa strada. Però pensaci tu, poniti nel tuo intimo queste domande.
    A volte rischiamo di sentirci sbagliati tutta la vita, colpevoli,dispersi, perché fissiamo parametri e standard ai quali, semplicemente, non potremo somigliare mai. Bisogna, io credo, costruire un ponte di connessione fra ciò che siamo, la nostra dimensione, e quella esterna, perché chiuderci nella nostra sarebbe impossibile e deleterio, ma anche sforzarsi di trasferirsi “di là”, dove saremmo sempre “in difetto”, sempre “indietro”, sortirebbe il medesimo risultato.
    Compromesso. Questo, bisogna cercare. La nostra dimensione nel mondo.
    Continua a lavorarci e butta fuori, non importa cosa ti trovi a scrivere. Finché senti il bisogno di farlo, fallo. Perché significa che ha bisogno di uscire e permetterlo è un primo importante passo. ;)

    1. Micol

      Mick<3 Guarda, io ho rimandato per anni proprio perché ero sicura che avrei sprecato tempo e soldi e basta, non nel senso che non credevo nell'efficacia della terapia (ho esitato fino all'ultimo tra Lingue e Psicologia, all'università, e ancora adesso ogni anno mi viene la tentazione di provare anche con l'altra opzione^^), ma perché sentivo di non essere pronta io, di non voler cambiare o forse di non voler ammettere che un altro potesse aiutarmi a farlo. (Posizione ragionevolissima, lo so: e ancora adesso credo che sia una delle mie resistenze peggiori.^^) Quindi boh, quando ho deciso di provare – perché insomma, le cose erano un po' precipitate e mi sembrava valesse la pena di fare un tentativo – ho più che altro ragionato in termini economici, cercando qualcuno che applicasse tariffe ragionevoli. Non tanto per taccagneria ma proprio perché cioè, mi conosco. Sapevo che sarebbe stata una cosa lunga, perché sono sempre cose lunghe per forza, e se avessi dovuto spendere 100 euro ogni volta avrei mollato alla terza seduta dicendomi che tanto non ero ancora pronta e stavo sprecando soldi e basta. Così invece ho cercato una cosa accettabile e mi sono imposta di resistere almeno sei mesi, e boh, credo che in realtà mi sia andata abbastanza bene, nel senso: non abbiamo mai parlato di orientamenti specifici ma nel CV lei è descritta come psicanalista e il suo approccio consiste sostanzialmente nel lasciarmi parlare, che voglio dire: è credo il modo migliore di prendermi. Da qualunque pseudo-comportamentista sarei fuggita a gambe levate e solo l'idea che mi dessero dei compiti da fare a casa mi faceva venire sudori freddi. Abbiamo parlato da subito un sacco di scrittura, tende a lasciarmi lavorare molto sulle metafore (che è una cosa che mi sembra funzioni parecchio anche in questi casi, probabilmente perché il mio cervello è proprio tarato in ottica poetica: una volta dopo averne trovata una particolarmente azzeccata, credo, mi sono sentita tipo immersa nella nebbia per due giorni, che sembra una cosa orribile ma in realtà mi ha dato solo la sensazione che una parte di me fosse molto impegnata a elaborare qualcosa nel profondo e non avesse tempo per essere troppo attiva^^) e boh, continua a ripetermi che il punto non è diventare un'altra persona o diventare più adatta al mondo in generale, solo sentirmi più a mio agio nel mondo in cui voglio vivere io.
      E boh. So di avere ancora davvero tantissima strada davanti, perché cioè, ci sono millemila cose che penso e non dico perché non voglio espormi, perché da un lato sono felice che smuova qualcosa e dall'altro ho il terrore che lo faccia, e insomma. Il mio bisogno di avere costantemente il controllo è decisamente un impaccio notevole, in questi casi. Però boh. Non credo di stare facendo danni, e mi sembra già qualcosa.^^

      Per il resto, boh. Quando dico che mi sono persa, intendo dire che la ragazzina che ero a tredici anni – curiosa, vibrante, piena di aspettative verso il futuro e di voglia di vivere e di amare e lottare – sarebbe parecchio delusa della persona che sono diventata. Della vita che ho fatto per anni. Delle cose a cui ho smesso di interessarmi. Del terrore di mettermi in gioco, di esprimere opinioni, di entrare in contatto con il mondo e con le persone. Il punto di paragone è quello, credo, e non so: quando ti rendi conto che non hai la più pallida idea di cosa potrebbe renderti felice, che non solo non sai come fare certe cose, ma neanche quali cose vorresti fare, come potresti imparare a farle, dove dovresti convogliare il coraggio che non sai ancora trovare… Credo che qualcosa manchi, ecco. O almeno, lo sento mancare io. Cioè, potrei dire che sono fatta così e basta, che la mia vita è questo equilibrio tranquillo e privo di scossoni, dove non ci sono picchi di gioia ma neanche di dolore (cosa che tra l'altro è falsa, perché il dolore ti arriva alle spalle comunque, anche se te ne proteggi, e negli ultimi mesi ne ho avuto conferma), ma boh, mi sa tanto di resa. E in realtà abbiamo parlato proprio di questo: cioè, del fatto che non devo cambiare per forza, che posso anche solo assecondarmi. Ma credo che mi spaventi il sollievo che provo all'idea, nel senso: sarebbe così facile. Nel modo in cui sono facili le rinunce, i compromessi che ti evitano i conflitti solo perché nulla ha davvero importanza. Non so. Sembra un po' zen, a descriverlo, ma su di me ha più che altro una patina depressa.

      Grazie mille degli spunti, comunque, davvero. <3 Farsi domande – e non dare nessuna risposta per scontata – è davvero la base di tutto, credo.^^

      (Se poi un giorno vorrai parlare del tuo percorso di studi nel campo o affini io sono sempre curiosissima al riguardo.^^)

  2. Stefania Covella

    È proprio quello che intendevo. Forse ora non lo pensi, ma più avanti ti farà piacere poter tornare a questo post qui. Penso a quella frase di Tolkien Not all Who wander are lost. E una volta credevo fosse vera, ma dopo tanto tempo da vagante, penso di essere persa e forse ti sei persa anche tu. Ma non ho mai pensato che ti fossi nascosta.

    1. Micol

      <3 <3 <3 Non so quanto abbia senso, ma la prima cosa che ho pensato leggendo questo commento è che insomma, essere persa insieme a te – anche se "insieme" in questo caso significa solo "in contemporanea" – non può essere poi così male. <3 E nulla, Ste, credo che questo periodo sia quello meno indicato per fare bilanci sul proprio percorso (nonostante la tentazione irresistibile), e questa una sede ancora meno indicata del periodo, ma ti abbraccio forte e prima o poi arrivo a parlarne con calma in un posto più adatto. Intanto grazie, ecco. Di tutto, sempre.^^

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