È da mesi che ho questa sensazione di vivere in compartimenti stagni. Nella testa, più che nella realtà – la realtà è un acquario da un anno ma vabbè, ci sono abituata, in qualche modo ci sto anche meglio -, come se avessi dentro delle barriere di vetro infrangibili che permettono alle cose di scorrere parallele senza mai mischiarsi. Senza toccarsi nemmeno, ma così: in una separazione invisibile.
Quasi tutte le sere, quando mi metto a letto e spengo la luce, è come se per una frazione di secondo almeno in qualcuna di quelle barriere si aprisse una chiusa. Posso affacciarmi nella corrente sottostante, immergerci una mano, sentirne la temperatura. E non so esattamente come sia possibile che faccia così male tutto, in quel momento – come possa diventare cosciente di ogni singola cosa, in una specie di epifania assoluta, perché non è soltanto la morte di Sabrina a diventare chiarissima in quegli istanti di contatto, ma anche tutte le altre cose che il nostro cervello è incapace di comprendere: il fatto che moriranno i miei genitori, che morirò io, che morirà mia nipote e ogni essere vivente ancora non nato, che la nostra vita è quasi tutta finzione a parte quello, che il sempre è reale e il tempo infinito e che entrambi sono comunque un paradosso –, e che subito dopo l’istante si chiuda e l’apertura con lui, la barriera torni di quella trasparenza inscalfibile, ma succede, sera dopo sera. Ormai è diventata un’abitudine, e a volte ho la sensazione che sia persino più radicata: che l’intera mia vita dall’inizio dell’adolescenza in poi sia stata vissuta dietro a quella barriera che separa dal dolore ma anche dal piacere, da tutto l’imprevedibile. L’ingovernabile. Dentro e fuori, come se fossero una stessa cosa. Mi chiedo dove sia io, in tutto questo. Nella topografia dell’anima, dove si è arroccata la mia coscienza?
(Ogni volta che faccio questi pensieri – e li faccio spessissimo, da anni e anni – mi tornano in mente i versi di Alejandra Pizarnik che scrivevo ovunque a diciott’anni: Vida, mi vida, déjate caer, déjate doler, mi vida. Come una preghiera costantemente disattesa, come un’invocazione ossessiva a qualcosa di cui non avevo ancora preso coscienza perché pensavo fosse prodotto delle circostanze, incanto che si sarebbe spezzato appena fossi uscita nel mondo. Invece ero io, e basta. Più sinceramente della parte sognante che vagheggiava un’intensità che tutto il resto di me rifiutava a ogni giro di boa, fino a trasformarla in semplice astrazione.)
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