Ieri sono andata nell’orto, dopo una decina di giorni che non ci tornavo. Mentre stavo china a raccogliere i fagiolini – per qualche ragione è una delle cose che preferisco, scostare le foglie in cerca dei baccelli, verde su verde in tonalità diverse, superfici lisce – pensavo alla gratitudine di quel momento: l’idea stessa di raccolto. Lavoro duro per mesi, sole estate e caldo, e poi, quando la stagione si ripiega su se stessa e la terra diventa più stanca, ritrovarti in mano i frutti. Le foglie enormi dei cavoli, le rape bianche e viola come poggiate sulla terra, le carote che aspettano, tranquille, con il loro ciuffo ormai un po’ ingiallito. I porri vecchi già grandi, quelli più nuovi ancora quasi solo dei fili. Le zucche ammucchiate in un angolo, scorze dure e bitorzolute o lisce e sfumate: ogni sfumatura dal verde all’arancione. E intorno la campagna ancora piena d’erba e di foglie, il cielo azzurro luminoso, solcato da scie bianche che sembrano splendere in trasparenza. Una rete serena, dolcissima.
Mi manca qualcosa del genere, credo. Il senso del raccogliere. La consapevolezza che, cataclismi a parte, vale la pena spaccarsi la schiena e sudare, affondare le mani e la vanga nella terra, prendersi il tempo e la cura di mettere a dimora ogni singola piantina, perché a parte la soddisfazione del gesto – a parte il valore terapeutico, e la stanchezza bellissima, e la comunione – sai che qualcosa ne uscirà e sarà bello, e si spera buono, o quantomeno nutritivo. Che quanto è cresciuto sotto le attenzioni tue e del mondo andrà in bocca a qualcuno, verrà gustato e inghiottito e assimilato, si trasformerà in forza ed energia e non resterà chiuso in se stesso. O forse mi manca solo il senso di comunità che aleggia, quasi metaforico, dietro qualunque azione troppo grande per essere a tuo uso esclusivo. Difficile capirlo. Continue reading “Il senso del raccogliere”