«Sometimes you’ll believe it»

È un po’ un inciampo anche questo: che ogni cosa nuova che accade, bella o brutta – ma soprattutto bella, va detto -, si infranga contro il bisogno di raccontarla a lei, quell’istinto affinato negli anni e ora inutile, cavo, automatismo svuotato di senso. Dolore fantasma.


Oggi sarebbe stato il suo compleanno. È tutto il mese che ci penso, in qualche modo – tutto il mese che sguazzo in un’apatia simile a quella di dicembre, una palude in cui ristagnano le cose che non vanno e quelle che potrebbero andare, forse, le piccole gioie, una frase bella che hai letto, il fatto che la primavera sia qui, finalmente. In cortile il lillà è sbocciato e sfiorito e ogni volta che ci passo davanti lo penso: non sono riuscita ad amarlo neanche un giorno. Lo guardavo e pensavo che il tempo stava passando, presto non sarebbe più stato così bello e avrei dovuto aspettare un altro anno per rivederlo di nuovo in boccio, ma era come qualcosa di già scritto. Inevitabile, scontato.

Forse è abbastanza normale, in realtà: è il secondo anno che la primavera arriva in mezzo a questo incantesimo. A questo giro fa anche freddo. Negli altri sento frustrazione e stanchezza, e le comprendo, ma io ho più che altro l’ansia che tra non molto si potrà tornare nell’orto e non ho voglia di fare neanche quello. Mettere le mani nella terra, immergermi nel verde. Piantare fiori in terrazza e camminare al sole. Sentire l’aria sulla pelle. Sembra tutto impossibile.

Non spaventoso, sbagliato, ansiogeno. Soltanto… irreale.

Una storia raccontata da altri, a cui credi per loro, ma da una distanza immisurabile.


Oggi sarebbe stato il suo compleanno, forse è soltanto questo. Il fatto che è tutto il mese che ci penso, ed è normale passare aprile a pensarci, perché il suo compleanno non è praticamente mai stato un momento semplice o neutrale, per noi, per me, per il nostro rapporto, ogni volta era un balletto estenuante tra il bisogno di riconoscerlo e quello di farlo passare sotto silenzio, tra la voglia di dirle qualcosa e quella di non attirare l’attenzione. È la prima volta da più di dieci anni che non mi ritrovo a scriverle un viluppo di frasi in cui nascondere gli auguri che non posso farle in modo esplicito, e non pensavo di ritrovarmi a scrivere qualcosa al riguardo, non davvero, quest’anno in particolare ha senso lasciare tutto quanto al silenzio, ma poi è successo che proprio oggi ho ricevuto un’e-mail inaspettata e sono qui, con quella notizia in gola, a cercare di capire se sono felice o soltanto sollevata, se sono orgogliosa o spaventata o piena di sensi di colpa. È un piccolo passo, ed è un piccolo passo mio, della persona che sono a tutto tondo, ed è arrivato il giorno in cui lei avrebbe festeggiato il compleanno, e quando ho permesso al pensiero di formarsi davvero mi sono ritrovata a piangere di nuovo per ragioni che non c’entravano nulla con oggi e tutto con il messaggio che ho ricevuto più o meno alla stessa ora quasi cinque mesi fa esatti, con la telefonata di tre mesi prima, con tutte le cose che sono rimaste nella mia vita e che costituiscono ormai le sue sole costanti e sono così invischiate a lei che fatico a non odiarle, un po’, anche mentre le amo e mi ci aggrappo ostinatamente.


Ste dice che lei sarebbe fiera, e felice, e so che ha ragione. Probabilmente lo vivrebbe come un regalo, in qualche modo, e forse dovrei viverlo così anche io. Ieri ho sentito A., che mi ha chiesto di ricominciare a scrivere, e so che stava parlando per lei, perché è quello che avrebbe voluto, e non ho neanche mai smesso, è questo il punto: ho Mark ed Helene, e Magda, e sto facendo progressi nel mio modo normale, in cui passo mesi a non scrivere una parola e poi butto giù un capitolo in pochi giorni, e funziona. Sono felice di cosa sta uscendo, anche se è diverso da tutto quello che ho fatto finora: è una direzione che stava dentro alla Rosa, in qualche modo, che lei riconoscerebbe e amerebbe di certo. Non ho dubbi al riguardo, così come non ho dubbi su Theo, o sulla Rosa che scriverò in futuro. Così come non ho dubbi che avrebbe amato lo scarabocchio che ho buttato giù oggi pomeriggio perché sentivo di doverglielo. Fanno tutte parte del nostro percorso, di quello che è stato e che sarà in futuro.

Questo è diverso, però.

Questo è diverso, e mio: la prima cosa che pubblicherò con il mio nome vero. Un racconto da rivista, con due ragazze protagoniste e una voce che non so bene da dove sia uscita ma che è la cosa più vicina a quello che intendo per scrittura vera che sia mai riuscita a produrre. Ed è strano. Non me l’aspettavo per nulla. Non oggi, almeno: forse non in generale.


(L’ho spedito un giorno che ero particolarmente triste, smorzata – certe cose riesco a farle solo quando sono troppo depressa per provare ansia –, e ho appena guardato il calendario ed era il giorno prima di quello bruttissimo in cui mi sono trovata a cenare in mezzo alla famiglia con le lacrime che scendevano in silenzio e senza nessun motivo concreto, il giorno prima di rendermi conto che qualcosa stava andando storto sul serio, e di parlarne finalmente un po’ con mia mamma, e dire cose che non avevo ancora ammesso a voce alta perché sto parlando a voce alta pochissimo, di cose vere almeno, con qualcuno che non sia la psicologa, e sembra impossibile che siano passate solo poche settimane, è come se si fosse alzato un altro muro tra quella che ero quel giorno, quella sera, e quella che sono adesso. Una monade, prima e dopo. Nel frattempo ci sono stati dieci giorni di raffreddore e mal di gola e tosse e un weekend passato a letto con la febbre a leggere fanfiction in cui Bucky Barnes è molto molto innamorato di Samuel Wilson e la vita ha ripreso il suo corso, bizzarramente. E oggi sono qui. A piangere, e tossire, mentre penso che è il suo compleanno e io non posso dirle neanche che hanno accettato su una rivista la prima cosa che ho scritto da sola senza che lei avesse modo di saperne nulla. È così strano, e surreale e inevitabile, come la vita e la morte, davvero. Pulsa come un livido, e ha lo stesso colore.)


E niente. Immagino che sarà così sempre, per un bel po’ di tempo ancora. Stasera magari, quando mi metterò a letto, fisserò il soffitto e penserò davvero a quello che sto facendo, e forse mi verrà l’ansia, forse sarò finalmente felice, forse un misto confuso&vero di tutte e due le cose. Domattina mi sveglierò e riuscirò a spuntare qualcuna delle cose che nelle ultime settimane non ho neanche più segnato sulla to-do-list, tipo il pezzo che ho in sospeso da un mese e mezzo per il Colibrì, le e-mail personali a cui non sono più riuscita a rispondere – se avevamo qualcosa in sospeso, scusate, giuro che non mi sono dimenticata, prima o poi arriverà uno dei miei soliti papiri, in questi giorni non ho proprio avuto le forze – sabato imposterò il nuovo numero della newsletter, magari riuscirò persino a scrivere un post sul blog su qualcuna delle ultime letture. Riaprirò Helene, forse. Scriverò un altro pezzetto, e quell’altro pezzetto se ne porterà dietro un altro.

«Find a window» scriveva Joshua Jennifer Menzoda in una poesia che la me del passato sembra aver conservato proprio per farmela trovare oggi, mentre pensavo a tutto questo. «This can be anything / you want».

Your body will do what it will do.

It will accept the air no matter how
thick it becomes. You will reach

for a door and suddenly you’ll be
out in the wind touching all the

horribly beautiful things. You’ll say
this moment is not my enemy and

sometimes you’ll believe it.

Questo momento non è il mio nemico, dirai, e un giorno riuscirai anche a crederci.

È un bell’augurio.

Prima o poi diventerà vero, presumo.

2 thoughts on “«Sometimes you’ll believe it»

  1. La poesia è bellissima, la notizia della rivista ancora di più – e tutt* siamo troppo felici di questo, e orgoglios*. La condividerai? Potremo leggere anche noi questo traguardo? –, ma non scusarti mai di avere una vita, dei dolori, dei momenti in cui ti pieghi su te stessa. Non scusarti, ripeti con me.
    C’è solo una cosa che può spiacere alle persone con cui ti scusi per il tuo silenzio: saperti stare male. E non poter fare granché, a parte scrivere due parole inutili e sconclusionate a fine serata per dirti che ci siamo, ti aspettiamo (o forse no, se l’idea ti crea ansia. Facciamo che se ti crea ansia non è vero, se ti fa piacere invece sì), non importa quanto, ci interessa che tu stia bene e che sappia di poter contare su una discreta quantità di persone stabili a cui tenerti o traballanti come te :) (= non sei sola, se traballi. Traballiamo un po’ tutti, e spesso più di quanto mostriamo agli altri).
    Ti abbraccio tanto forte. ❣️🌺

    1. Micol

      Avevo già anche iniziato a risponderti, in realtà, quando la mia socialità è scesa sotto zero, e adesso credo che dovrò cestinare tutto perché è passato così tanto tempo che niente di quello che avevo scritto ha più molto senso. Ma presto arrivo, davvero.^^ Senza scuse, e molto volentieri. ♥ (Magari è anche la volta buona che cambio finalmente l’oggetto.^^)

      Per il racconto, condividerò senz’altro, sì.^^ Dovrebbe uscire per settembre, sono davvero felice. <3 (È buffo perché è brevissimo rispetto ai miei standard – i limiti di lunghezza delle riviste sono una delle cose che mi hanno fatto esitare di più al momento di cominciare a lavorare sui racconti di questo tipo, perché devi proprio imparare una grammatica narrativa diversa – ma in qualche modo sono più fiera di essere riuscita a scrivere un racconto di cinque cartelle che un romanzo di novantamila parole.^^)

      Un abbraccio, e grazie di quello che hai detto ♥

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